LA TRADIZIONE DELLA PRODUZIONE DEL MIELE ITALIANO NELLA VALLE DEL PO
AI PIEDI DEL MONVISO
IL MIELE: ORIGINE, COMPOSIZIONE E PROPRIETÀ
RESIDUI PRESENTI NEL MIELE
3.1. METALLI PESANTI.
La qualità del miele viene valutata tramite le determinazioni di alcuni parametri merceologici e viene completata con la determinazione ad esempio di alcuni metalli pesanti. Tra i requisiti che, infatti, possono identificare dal punto di vista tecnico un miele di qualità, una certa importanza è da attribuire all’assenza di residui contaminanti.
Un alveare è un potenziale accumulatore naturale di contaminanti che l’ape raccoglie dal territorio che tiene sotto controllo. Questo accade poiché questo insetto pronubo, oltre a suggere il nettare dai fiori, preleva il propoli dalle gemme, raccoglie il polline a beve l’acqua presente nell’ambiente.
L’ape è poi esposta alla contaminazione delle particelle sospese nell’aria che depositano sui fiori, erbe e foglie o che raccoglie con il corpo peloso.
L’influenza della contaminazione ambientale sullo stato di salute delle api è nota già da tempo, infatti, già nel 1935 si sono osservati i primi effetti negativi di contaminanti industriali sulle api. Svariati autori hanno poi studiato la possibilità di impiegare questo insetto per monitorare i livelli di inquinamento ambientale.
Nel caso della contaminazione da metalli pesanti, tuttavia i parametri riguardanti lo stato di salute degli animali, quali ad esempio il tasso di mortalità delle api, non possono essere impiegati quale indice di contaminazione ambientale. Tali insetti, infatti , non vengono uccisi né dal piombo, né da altri metalli, almeno a concentrazioni già preoccupanti dal punto di vista ecologico ambientale. Pertanto il dato di mortalità negli apiari si dimostra del tutto irrilevante.
È quindi da ritenere, che per i metalli tossici, il segnale più sensibile di inquinamento ambientale sia la presenza di residui rinvenuti nei prodotti dell’alveare e che tra questi il miele sia l’indicatore più sensibile, nonché il più facilmente reperibile.
I metalli pesanti come il piombo, i cui residui nel miele sono di origine ambientale, sono stati considerati nella Direttiva CEE 96/23, ma non sono stati stabiliti dei limiti residuali precisi. Nelle tabelle successive vengono elencati i dati sui residui di piombo in mieli prodotti in aree extraurbane in Italia e all’estero.
3.2. PRODOTTI FITOSANITARI.
La ricerca nel miele di residui di agenti contaminanti prevede non solo la ricerca di elementi chimici (come i metalli pesanti già visti precedentemente), anche di composti organofosforati e organoclorurati (compresi i PCB).
Un controllo del contenuto di questi contaminanti nel miele è necessario per salvaguardare i consumatori da possibili intossicazioni alimentari. Tuttavia, non va sottovalutata l’utilità di questi controlli, quando sono effettuati direttamente dai produttori, per affrontare la competizione commerciale sempre più forte, ed ottenere l’accesso alla grandi catene di distribuzione, tradizionalmente molto esigenti.
Questi composti possono raggiungere l’alveare ed essere trasmessi alle sostanze ivi prodotte attraverso molteplici meccanismi, tra i quali l’adesione di particelle aereo disperse al corpo delle bottinatrici durante il volo, la contaminazione del nettare e del polline per deposizione atmosferica sui fiori o mediante trasporto linfatico nelle piante dopo l’assorbimento dal suolo, l’ingestione di acqua inquinata da parte delle bottinatrici stesse.
Per la ricerca delle sostanze necessarie alla sopravvivenza della colonia l’ape perlustra un’area di oltre 7 km2, pertanto per tutta la durata dell’attività di bottinamento (dalla primavera all’autunno) questi insetti risultano fortemente esposti a contaminanti presenti su una superficie talvolta molto vasta intorno all’alveare.
Per tale motivo sia le api stesse sia i prodotti dell’alveare, in primo luogo il miele, sono stati proposti come bioindicatori della presenza di contaminanti nell’ambiente.
Mentre nel caso dei pesticidi la risposta biologica più frequentemente rilevata è la mortalità degli individui, nel caso di sostanze a tossicità latente e non immediata, come i contaminanti inorganici viene, normalmente misurato il bioaccumulo nei tessuti degli insetti o nei loro prodotti come ad esempio il miele.
I pesticidi, sia organofosforati che organoclorurati, sono senz’altro sostanze tossiche per cui vale quanto stabilito dalla legge 283/62 e la 753/82 che prevedono l’assenza di sostanze tossiche nel miele e come limite residuale si ammette quello di 10 ppm stabilito dall’O.M. 6/6/85.
Nella tabella successiva sono stati evidenziati i residui di alcuni pesticidi sia organofosforati sia organoclorurati in miele ottenuto da piante di diverso tipo.
3.3. PRODOTTI ANTIVARROA.
La varroatosi o varroasi è una malattia delle api adulte e della covata causata da Varroa destructor.
Per la rapidità di diffusione, i danni che provoca, la difficoltà di diagnosticarne precocemente la presenza, l’imperfezione degli attuali mezzi di controllo, e, infine, la mancanza di prodotti capaci di assicurarne la definitiva eliminazione, la varroatosi deve essere considerata come una delle più gravi malattie delle api.
Le perdite economiche ad essa dovute sono elevate, sia per i danni diretti provocati, sia per le complesse misure sanitarie che debbono essere adottate per controllarla nelle zone infestate e per impedirne la diffusione nelle regioni ancora indenni
La varroa è un acaro, varroa e api hanno dunque una struttura simile e questo fatto rende più difficoltosi i trattamenti acaricidi, poiché il prodotto utilizzato, oltre certe dosi, può rendersi tossico anche per l’ape.
Gli unici esemplari osservabili nell’alveare sono le femmine adulte che possono colpire sia l’ape adulta che la covata; il danno maggiore e determinante si ha in questo secondo caso.
La femmina della varroa si presenta ricoperta da uno scudo di colore rosso brunastro, di forma elissoidale, con dimensioni di 1,5-2 mm di larghezza e 1-1,5 mm di lunghezza, l’apparato boccale è di tipo succhiante ed è provvisto di chelicheri, cioè lame dentate che lacerano il tegumento delle api e delle larve più che pungerlo; possiede inoltre quattro paia di zampe ricoperte di peli e setole.
Il maschio di varroa, più piccolo della femmina ha un apparato boccale modificato per il trasferimento degli spermi; incapace di perforare il tegumento dell’ospite, muore pertanto, senza nutrirsi, subito dopo l’accoppiamento nelle celle opercolate.
Questo acaro è un ectoparassita, cioè un parassita esterno, le vittime preferite sono gli individui di sesso maschile specie allo stato larvale.
Le femmine di varroa adulte e feconde passano l’inverno sul corpo delle api operaie, preferibilmente infossate e protette nei tratti intersegmentali della parete ventrale dell’addome.
In primavera, quando nell’alveare riprende l’allevamento di covata, ha inizio anche l’attività riproduttiva del parassita che, dopo essersi nutrito di sangue larvale dell’ospite, penetra nelle celle da fuco e da operaia subito prima dell’opercoltura e, nelle cella opercolata comincia a deporre le uova, sulla larva stessa o lungo le pareti. Le celle reali sono attaccate solo in caso di infestazioni massicce.
Il numero di uova deposte varia con l’epoca stagionale; scarso in primavera, raggiunge il culmine in estate.
In media e per ogni covata, ogni acaro depone dalle 2 alle 5 uova, che, se le covate sono molteplici, possono raggiungere le 30 e più in un anno.
Dopo tre giorni circa dalla covata dalle uova si ottengono acari adulti maschi e femmine; l’accoppiamento avviene all’interno delle celle opercolate ed è seguito dalla morte dei maschi.
Le giovani varroe fecondate escono fuori accollate al corpo delle giovani api che sfarfallano.
Le generazioni del parassita si susseguono fino a quando è presente la covata di api e cioè, nei nostri climi, fino all’autunno.
Durante l’inverno una certa percentuale di parassiti muore (generalmente i più vecchi) mentre gli altri svernano sulle api in attesa di ricominciare il ciclo nella primavera seguente. La durata media di vita delle varroa femmine si valuta in 2-3 mesi in estate e 6-8 mesi in autunno-inverno.
Se il numero degli acari oltrepassa certi limiti, la mortalità raggiunge livelli elevati: si ritiene che quando il rapporto acari-api supera 20 a 100 l’alveare è destinato a perire, qualora non si intervenga drasticamente. La varroa può altresì facilitare infezioni setticemiche secondarie nelle api, aprendo la strada a diversi germi, che penetrano nell’organismo ed entrano in circolo attraverso le numerose ferite inferte dagli acari, usi ad ingerire il sangue in piccole quantità e spesso.
Altro lato negativo e pericoloso è che, nel lasso di tempo in cui la malattia si evolve silente ed ignorata in un alveare, i parassiti passano indisturbati da un alveare ad un altro e da apiario in apiario.
La problematicità nella lotta alla varroa è dovuta alla difficoltà di trovare sostanze che uccidano l’acaro senza nuocere alle api, al ciclo di vita della varroa che avviene prevalentemente nelle celle opercolate, dove i principi attivi non arrivano, e che ha una durata variabile, alle condizioni climatiche che influiscono sull’efficacia dei prodotti, specialmente di quelli di origine naturale, più aspecifica.
I prodotti antivarroa più comunemente utilizzati sono :
Flumetrina e Fluvalinate (piretroidi), Amitraz, Coumaphos, Cymiazolo acido ossalico, Timolo, Canfora, Eucaliptolo, Mentolo.
Il Regolamento CEE 2377/90 prevede che ci siano limiti residuali solo per il Bromopropilato di 10 ppm, per tutti gli altri prodotti non ci sono limiti addirittura; l’acido Ossalico non è ancora stato considerato da questo regolamento.
3.4. ANTIBIOTICI.
La presenza di residui di antibiotici nel miele è dovuta al fatto che essi vengono utilizzati nella lotta contro la Peste Americana malattia batterica dovuta al Paeni bacillus larvae White.
Questo germe ha forma di bastoncello è mobile e sporigeno. Dai corpi batterici allungati, noti come forme vegetative, si vengono infatti a costituire, sotto l’influsso di cause diverse, le cosiddette spore, corpuscoli che rappresentano le forme di resistenza e che, in certe condizioni, danno di nuovo origine alle cellule vegetative. Si compie così l’intero ciclo biologico del parassita. Le spore di P. larvae sono estremamente resistenti alle alte e basse temperature, alla luce del sole, al disseccamento, ai comuni disinfettanti ed all’azione logorante del tempo.
La peste americana si trasmette per via orale, allorché le larve ricevono un alimento contaminato da spore del parassita: le cellule vegetative risultano innocue sotto tale profilo, in altre parole, non sono infette. La malattia e la mortalità si manifestano però a carico delle larve già opercolate. Bisogna quindi ammettere che l’infezione progredisca assai lentamente e che solo nelle ultime fasi della vita larvale dell’ape il batterio trovi le condizioni più adatte per la sua pullulazione; a questo momento le forme vegetative sviluppatesi dalle spore si moltiplicano rapidamente e dall’intestino medio, loro sede primitiva, passano ad invadere l’emolinfa e quindi i diversi tessuti ed organi. Così l’infezione, da localizzata che era nelle larve giovani e all’inizio, diventa setticemica e generalizzata. Segue la morte delle vittime, il cui corpo subisce una caratteristica putrefazione, mentre le forme vegetative del P.larvae, si ritrasformano in spore che consente al batterio la resistenza passiva, attendendo il momento opportuno per il nuovo attacco. La malattia presenta sempre un decorso molto uniforme e regolare che si ripete con notevole costanza.
La peste americana è una malattia estremamente contagiosa, che si propaga con grande facilità anche se meno in fretta di quanto si possa pensare, dato che la recettività è limitata alle larve giovanissime e che numerose spore sono eliminate dalle api adulte: la fonte primaria è, naturalmente, la larva ammalata e, soprattutto, la larva morta, i cui tessuti sono trasformati in ammassi di spore (ogni larva morta contiene 2,5 3 miliardi di spore)
Pericolosi veicoli di diffusione sono poi, naturalmente, il polline e soprattutto il miele proveniente da alveari appestati, che contengono di conseguenza spore del batterio.
Se ne deduce che è opportuno e prudente non dare alle api miele di provenienza sconosciuta e assolutamente necessario evitare la somministrazione di miele che si sa infetto.
Lo stesso apicoltore può essere vettore di contagio, sia con gli attrezzi che con le mani ed i vestiti, se non segue, nella visita agli alveari ammalati, le necessarie precauzioni igieniche.
Gli antibiotici che vengono usati più comunemente per la lotta contro la peste americana sono in prevalenza: Tetracicline, Sulfamidici e Streptomicina.
Non esistono limiti riguardanti residui di antibiotici nel miele ma facendo riferimento alla Legge 753/82 non ci dev’essere presenza di sostanze estranee nel miele.
Kruzik P. von et al (1989) fecero uno studio su 11 campioni di miele di provenienza tedesca alla ricerca di residui di antibiotici; il risultato fu che in un campione si trovarono 0,14 ppm di un sulfamidico, il Sulfatiazolo, mentre in altri tre se ne trovarono solo tracce.
Horie et al. (1992) analizzarono 82 campioni di miele, 35 giapponesi e 47 domestici. Furono trovati due campioni di miele domestico in cui il livello di residui di un sulfamidico il Sulfadimetossina era rispettivamente di 0,23 e 0,83 ppm.
Mutinelli et al (2001) ricercarono residui di Sulfamidici e Tetracicline in miele di provenienza Italiana negli anni 1999/2000 e 2000/2001.
SULFAMIDICI - Anno 1999/2000
66 campioni in totale, principalmente Melata e Castagno.
Sulfatiazolo: 5 campioni positivi con min 0.01- max 0.07ppm.
TERACICLINE
62 campioni in totale, principalmente Melate.
Ossitetraciclina: 8 campioni positivi con min 0.01- max 0.12ppm.
Tetraciclina: 7 campioni positivi con min 0.01- max0.12ppm.
SULFAMIDICI - Anno 2000/2001
75 campioni in totale, principalmente Melate.
Sulfatiazolo: 10 campioni positivi con min 0.03- max 0.72ppm.
TETRACICLINE
68 campioni in totale , principalmente Melate.
Ossitetraciclina: 9 campioni positivi con min 0.01- max 0.04ppm.
Tetraciclina: 7 campioni positivi con min 0.01- max 0.04ppm.